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OTZI e il mistero del poliporo

OTZI  e il mistero del poliporo

Della celeberrima ‘Mummia dei ghiacci’ o ‘Uomo del Similaun’, tradizionalmente chiamato Őtzi, la gente sa ormai quasi tutto, perchè gli studiosi lo hanno voltato e rivoltato, sottoponendolo ad una gamma di analisi sterminata e a sofisticatissimi esami endoscopici e bioptici, oltre che a comparazioni paleoantropologiche, a studi paleoclimatici e archeobotanici. Di pari passo, anche il suo ‘corredo’- ovvero il materiale rinvenuto a poca distanza dal suo corpo congelato e mummificato naturalmente- ha subìto la stessa sorte. Sono emersi molti dati, talvolta sorprendenti, che hanno consentito di fare luce sull’ambiente in cui viveva quest’uomo, oltre tremila anni prima di Cristo. Ma diversi misteri restano, e ci mancherebbe non fosse così! La Ricerca si arresterebbe e diverrebbe mero accanimento scientifico mentre lo scopo è quello di capire il nostro passato. Quando si presentano casi come questo, in cui un essere umano di 5.300 anni è pervenuto a noi praticamente intatto, grazie al ghiaccio che lo ha ricoperto e congelato per millenni, la scienza giustamente esulta ed è chiamata a dare risposte. Ne venissero ritrovate altre, di mummie analoghe, Őtzi resterebbe sempre la più importante. Per questo a lui è riservata un’intera ala del Museo Archeologico dell’Alto Adige di Bolzano, che abbiamo avuto il piacere di visitare recentemente. Chiuso in una cella con un microclima idoneo alla sua conservazione, lo si osserva da una semplice finestrella 40 x 40 cm per pochi minuti (per far posto a tutti i visitatori che attendono), mentre il suo corredo è esposto come reliquia nelle vetrine.Dal 3 ottobre 2009 e fino al 10 maggio del 2010, anche la città di Bergamo dedica una mostra all’Uomo del Similaun, che pure abbiamo avuto il piacere di visitare. Inoltre, in corrispondenza delle giornate di Bergamo Scienza (3 – 18 ottobre 2009), sono state organizzate anche due conferenze a tema, ad una delle quali abbiamo partecipato, quella tenuta dal prof. Klaus Oeggl[1], specializzato in archeobotanica.Alcune parole del professore, unite alle nostre recenti visite, hanno dunque acceso in noi il desiderio di dedicare ad Őtzi una pagina nel nostro sito, dando un certo spazio ad alcune curiosità e ad alcuni misteri che ancora restano aperti. La consulenza dell’amico Gianluca Toro, chimico, ci ha supportato nelle considerazioni di tipo micologico che sviscereremo nel prosieguo dei nostri “due passi”, sempre tesi a considerare gli aspetti meno inflazionati di un dato argomento. Superfluo perciò dilungarci su notizie che ormai sono storia; ne accenneremo solamente.La zona, circolettata, dove fu scoperto il corpo di Őtzi (foto scattata, con autorizzazione, alla Mostra ‘L’uomo venuto dai ghiacci’, Bergamo)Una data palìndroma Il 19 settembre 1991 una coppia di escursionisti tedeschi (eccellenti alpinisti), Erika ed Helmut Simon, scorse, a 3.200 metri di altitudine, sul massiccio dell’ Őtzal, un cadavere umano che emergeva dalla neve congelata. La loro meta era il rifugio del Similaun, e in breve dovevano raggiungere il Giogo di Tisa, un valico che è appena segnalato sulle mappe, quasi avesse poca importanza, sul confine tra Italia ed Austria. Quella data, anzitutto, ha destato curiosità, a posteriori: 19/9/1991: è una di quelle che si possono leggere da sinistra a destra e viceversa, palindroma! Qualcuno, a suo tempo, disse che era un segno del destino: se i due escursionisti fossero passati il giorno prima, la neve avrebbe coperto ancora la mummia e non l’avrebbero mai notata. Ma quel giorno il sole – sul finire di un ‘estate particolarmente calda – fece sciogliere quel tanto che bastava la neve, perchè il sonno di quell’ uomo millenario venisse scoperto (qualcuno, e capiremo dopo perchè, disse ‘violato’).Visto che si trovava sul massiccio dell’ Őtztal, verrà quasi subito chiamato Őtzi, la mummia dei ghiacci (o Iceman) ma anche Uomo del Similaun. I due scopritori, giunti al rifugio, riferirono del ritrovamento; ma dato che non era la prima volta che cadaveri umani emergevano dai ghiacci (sfortunati alpinisti o sciatori travolti da valanghe), nessuno si mosse immediatamente, tanto più che la competenza territoriale era dubbia:toccava agli italiani o agli austriaci? Inizialmente se ne occuparono i secondi, ed è per tale ragione che per anni la mummia del Simulaun verrà conservata all’Istituto di Anatomia di Innsbruck e solo in un secondo momento verrà definitivamente trasferita a Bolzano (quando si farà chiarezza sui confini territoriali e sulle competenze, vista anche l’importanza del …soggetto!).Il famoso alpinista Reinold Messner  in compagnia di un amico e di una guida, Kurt Fritz, venuto a conoscenza di questo ritrovamento, decise di andare a vederlo e comprese che non si trattava di un escursionista recentemente scomparso in quanto- dando un’occhiata ai reperti e all’abbigliamento rimasto- capì che non erano di un’epoca che la memoria ricordasse. Da quel momento in avanti il sonno di Őtzi non trovò più il silenzio della montagna a fargli compagnia. Dal martello pneumatico usato incautamente per estrarlo dalla sua tomba di ghiaccio, in cui era intrappolato dalla cinta in giù (operazione che gli causò anche una abrasione alla coscia), alle successive operazioni di analisi scientifica, l’uomo dei ghiacci venne esaminato da decine di esperti, la sua immagine fece il giro del mondo e divenne un caso assoluto. Soprattutto man mano arrivavano i dati che, nel corso del tempo, hanno subito vari aggiustamenti, perfezionandosi le tecniche di indagine. Con il passare degli anni, infatti, sono state avanzate teorie che poi sono state smentite, mentre ne sono comparse di nuove e sorprendenti.Dal 1991 al 1998 l’uomo del Similaun fu studiato dalla Facoltà di Preistoria Alpina dell’Università di Innsbruck, poi soppressa nel 1998; al suo posto è stato creato nel 2007 l’ Istituto per le mummie e l’Iceman (EURAC), che coordina e sostiene la ricerca sull’Uomo venuto dal ghiaccio ed altre mummie, collaborando con il Museo Archeologico dell’Alto Adige. Visitando il luogo dove oggi Őtzi riposa, senza che possa mai essere spostato, e seguendo le ultime conferenze in materia, possiamo scrivere qualche notizia in merito alle ultime scoperte e ai nuovi misteri emersi.Ricostruzione della situazione al momento del ritrovamento della mummia di Őtzi (foto scattata, con autorizzazione, alla mostra “L’uomo venuto dai ghiacci”, Bergamo): il corpo si presentava di schiena, con il volto affondato nel ghiaccio.

Certezze e interrogativi

Oggi sappiamo che egli visse nel Neolitico, circa 5.300 anni fa e che morì  attorno ai 45-46 anni d’età per un’emorragia all’arteria ascellare, causata da una ferita da punta di freccia (scoperta nel 2001, a distanza di ben dieci anni dal ritrovamento), scagliata alle sue spalle. Il nostro Uomo dei ghiacci fu ucciso. Da chi e perchè ovviamente non si sa, anche se si fanno supposizioni (ci sono esperti per ogni enigma!). La smorfia di dolore eterna che gli è rimasta sul volto è abbastanza eloquente, a nostro avviso. Ma il sangue fuoriuscito dalla ferita dov’è finito, dal momento che non ne è stato trovato? Inoltre, recentemente si è determinato che le tracce ematiche umane scoperte vicino al corpo non sono ‘da contaminazione’ (cioè di epoca moderna) e non apparterrebbero a Őtzi (il tipo di DNA è diverso), sebbene siano del medesimo ceppo genetico (popolazione sub-alpina di una stessa etnia). Era quello di persone contemporanee all’uomo del Similaun e forse, in via dubitativa, dei suoi aggressori? Si tratta del DNA di 4 persone diverse, corrispondenti ad altrettante tracce di sangue:una sulla parte posteriore del mantello, un’altra sulla lama di selce del pugnale e due sulla punta di freccia. Ma se il suo pugnale è stato trovato ancora nel fodero, è evidente che Őtzi non lo ha usato per una eventuale difesa (avrebbe infatti usato le mani per proteggersi, poichè sono stati trovati dei tagli su di esse). Il sangue altrui come è dunque finito sul suo stesso pugnale?

Particolare del volto di Őtzi nella sua cella del Museo Archeologico di Bolzano (foto autorizzata per la pubblicazione, vedi a fondo pagina). Il braccio sinistro è ‘fissato’ in quella posizione dal momento del decesso.

Viveva con ogni probabilità più a sud di dove è stato ritrovato, nell’area di Bressanone (BZ), appartenendo forse ad una cultura sub-alpina. La tesi che lo riteneva un pastore è superata, come ha affermato il prof. Klaus Oeggl in conferenza. Ma capire chi fosse veramente è arduo. Aveva delle frecce molto più lunghe del necessario, nella faretra, perché? L’arco in legno di tasso (il migliore, che ancora oggi si usa) non era finito, l’uomo lo doveva forse approntare mentre sostava sulla montagna, credendosi ‘in pace’…! Il suo equipaggiamento prevedeva anche un pugnale ben lavorato e un’ascia con lama in rame, dettaglio che fa capire che doveva essere un personaggio di rango elevato. E’ stato possibile raccogliere campioni dell’ultimo pasto nel suo stomaco, scoprendo di cosa si era cibato ed è emerso, dalle ultime ricerche, che non è vero che il suo nutrimento fosse esclusivamente vegetale. La presenza di fibre muscolari ha permesso di risalire al fatto che avesse mangiato carne di Cervo elaphus e di Capra ibex. Nello stomaco c’erano anche resti di pappa di farro e verdure. Inoltre, aveva bevuto acqua dal ghiacciaio.

Metà del naso della mummia manca, l’orbita sinistra sembra vuota mentre, in quella destra, è ancora presente un occhio azzurro, forse strabico. Le orecchie si sono seccate e quella di sinistra è piegata. Gli esami radiografici hanno permesso di cogliere una rarità nel suo apparato scheletrico:era privo della coppia della dodicesima costa, cosa che non gli creava alcun problema, mentre aveva subìto delle fratture costali all’emitorace sinistro, che si erano rimarginate completamente,  mentre nella parte destra ci sono fratture alle coste non rimarginate. Gli studiosi si interrogano sulle modalità e sull’epoca in cui l’Uomo dei ghiacci se le procurò. E’ possibile che possa essere stata la pressione del ghiaccio a causargliele? Tra l’altro quest’ultima eventualità avrebbe anche determinato le deformazioni del suo cranio.

Őtzi non ha l’epidermide esterna e non ha i capelli. Sulle sue unghie sono state rilevate tre linee di Beau, che corrispondono a tre diversi momenti di stress da lui subiti, avvenuti con ogni probabilità 8, 13 e 16 settimane prima della sua morte. L’ultimo attacco fu il più pesante. Tuttavia gli studiosi non hanno identificato la malattia cronica che causò la formazione di questi solchi trasversali sulle unghie (ma forse potrebbero essere in relazione con la parassitosi intestinale, come alcuni ricercatori ipotizzano) In realtà, oggi sappiamo che le linee di Beau possono anche essere generate da altri fattori (come la carenza di zinco) o possono essere indotte farmacologicamente (rientrano tra gli effetti collaterali più frequenti dei chemioterapici). In assenza di dati anamnestici (come è evidente nel caso di Őtzi!), possiamo dire in modo generico che le linee di Beau indicano una malattia pregressa; se sono presenti su tutte le unghie di una mano o di entrambe le mani, potrebbero segnalare che l’individuo è affetto da una grave patologia. E’ interessante osservare come, in alcune circostanze particolari (ad esempio in caso di un’emorragia con pericolo di vita ed ipotensione), si possano formare le linee di Beau in tutte le unghie. Non è chiaro se Őtzi presentasse questo fenomeno su una o più unghie, ma il fatto che egli morì proprio per un’emorragia acuta, potrebbe accordarsi con la seconda ipotesi.La sua morte è avvenuta –secondo gli studi più recenti- in primavera, contrariamente a quanto si riteneva. Infatti, secondo il prof. Oeggl, il processo di  post-mortem è passato attraverso tre fasi: immersione in acqua per 4-6 settimane, disseccazione con perdita del 30% di acqua, e successivo incapsulamento tra la neve e il ghiaccio (che ha decretato la sua conservazione così come si trovava in quel momento). Őtzi è considerato una mummia umida.Tutto il repertorio di oggetti che l’uomo aveva con sè denota che non fosse affatto uno sprovveduto:si era preparato come quando noi ci accingiamo a fare una trasferta, portando le cose che sappiamo servirci in determinate condizioni (chiaramente immedesimiamoci cosa potesse contare maggiormente alla sua epoca). Molti sono concordi nel definirlo un saggio, perchè – oltre al fisico- forse  Őtzi badava anche allo spirito, a quel concetto astratto e vitale che è in ciascun individuo. Tra gli aspetti curiosi del suo aspetto fisico spuntano sedici tatuaggi di colore nero-blu, sottoforma di piccole linee sia parallele che cruciformi, incisi in zone corporee corrispondenti a quelle che gli agopuntori cinesi conoscono bene, essendo ritenute ‘nodali’: sapendole opportunamente stimolare, allevierebbero dolori o squilibri organici. Ben 9 tatuaggi si trovano sul cosiddetto ‘meridiano della vescica’, mentre gli altri sui meridiani del fegato, della milza e della cistifellea. Ma l’agopuntura è stata scoperta almeno duemila anni dopo la morte di Őtzi! Egli dunque sapeva – o intuiva – che tatuandosi su zone particolarmente dolenti (nel suo caso le aree articolari), ne avrebbe ricevuto giovamento e benessere. Potremmo pensare che da un lato l’azione fosse magico-apotropaica, dall’altro una forma di terapia vera e propria. Era consapevole di avere delle patologie e le curava. Con ogni probabilità questa usanza  non era isolata: poteva essere comune a tutto il suo clan di appartenenza o la presenza dei tatuaggi ne decretava il rango, lo ‘status sociale’? I tatuaggi dell’Iceman furono eseguiti con polvere di carbone vegetale, in due possibili modi: previa incisione della pelle con una lama di selce, si è provveduto poi a marchiarla bruciando delle erbe sull’incisione stessa oppure applicando un impasto a base di carbone misto a saliva o acqua.

Nulla si sa invece a che cosa servisse la pietra bianca che l’uomo portava al collo, agganciata ad una sorta di gomitolo di cordicelle di cuoio intrecciate: un amuleto, un oggetto decorativo o funzionale?

Ricostruzione dell’abbigliamento, dell’equipaggiamento e della conformazione fisica che aveva l’Uomo del Similaun (foto autorizzata dalla mostra di Bergamo)

Tra gli oggetti facenti parte dell’equipaggiamento, alcuni meritano una particolare attenzione, per meglio comprendere il suo mondo tecnico-pratico ed eventualmente magico-religioso.

 

I primi sono costituiti da due forme sferoidali delle dimensioni di una noce, simili tra loro; ognuno di essi è infilato su un laccio di cuoio. Le caratteristiche di base e l’analisi microscopica, effettuata in parallelo su moderni campioni di riferimento dipolipori, hanno permesso di identificarli con il poliporo della betulla (Piptoporus betulinus), o eventualmente con il poliporo del larice (Lariciformis officinalis). Quest’ultimo contiene agaricina, per cui, se si fosse trattato effettivamente di questa specie, si sarebbe dovuta evidenziare la presenza di questo composto nei due reperti, ma non è stato così. D’altra parte, è stato individuato l’acido poliporenico C, specifico del poliporo della betulla. L’identificazione proprio come poliporo della betulla è stata confermata da ulteriori analisi chimiche, utilizzando moderni campioni di riferimento dei due polipori, come confronto. Il terzo oggetto è rappresentato da un cosiddetto ‘materiale scuro’ raggrumato che formava la maggior parte del contenuto di una piccola borsa di cuoio, comprendente anche oggetti affilati di selce, una punta sempre di selce e un attrezzo sottile di osso. Inizialmente, si pensò che questo materiale scuro fosse una resina probabilmente usata per riparazioni varie. L’essiccazione ha evidenziato una struttura fibrosa e l’analisi microscopica ha permesso di identificare un altro poliporo. Il fatto che questo materiale fosse ben conservato nella borsa, insieme a oggetti di selce, fa presupporre che si trattasse di un fungo usato come esca per il fuoco (2). Anche in questo caso, il confronto tra il reperto e moderni campioni di riferimento (specie di Fomes, Ganoderma e Gleophyllum), sia a livello microscopico che chimico, ha permesso di individuare il fungo dell’esca (Fomes fomentarius). Con esso, molto probabilmente, Őtzi riattizzava le braci che trasportava con sè, custodite all’interno di una sacca vegetale. In tal modo aveva la sicurezza di potersi accendere un fuoco per riscaldarsi ovunque si fosse trovato, ed eventualmente cuocere della carne, allontanare animali indesiderati, etc. Ma il poliporo della betulla?

Il poliporo del mistero

Anzitutto la presenza di questo fungo tra gli oggetti che Őtzi portava con sè è confermata sia dal materiale documentale esposto in mostra a Bergamo, sia al Museo Archeologico di Bolzano, dove il reperto è presente. L’Uomo dei ghiacci ne usava quantità opportune per combattere una parassitosi intestinale di cui era affetto (come hanno confermato le analisi). A dosi diverse, il potere del fungo può essere letale, in quanto è velenoso. L’impiego del poliporo della betulla come esca o come cibo è improbabile. In quest’ultimo caso, la forma, le dimensioni e il modo in cui i due frammenti sono presentati non sembrano compatibili con una fonte di cibo, oltre al fatto che il gusto non è proprio piacevole. Anche l’uso ornamentale sembra difficilmente sostenibile. Per cui si può ben contestualizzarne l’impiego da parte di Őtzi, come antiparassitario intestinale ma durante la conferenza del prof. Oeggl si è presentata una sorpresa.

Gli abbiamo infatti chiesto chiarimenti sulla presenza di questo fungo, ma egli ci ha risposto che non è stato identificato! Ma come? Se lo abbiamo anche visto! Őtzi – ha specificato lo studioso- aveva una massiccia  parassitosi intestinale; sono state infatti isolate 10.000 uova di tricocefalo (Trichuris trichiura), il quale provoca dispepsia e diarrea. Dal canto nostro, sappiamo che nei casi gravi questa affezione può portare a forte disidratazione e ad anemia per diarree sanguinolente; i dolori addominali sono generalmente scontati e c’è anche un incontenibile prurito anale. A quanto ha detto l’esperto, era un’affezione comune ai tempi in cui visse Őtzi. Non fatichiamo a crederlo, questo, poichè la femmina del tricocefalo – che alberga come parassita indesiderato nell’ intestino- depone migliaia di uova ogni venti giorni circa, che vengono eliminate con le feci. Ai tempi di Őtzi c’è da immaginare che ciò avvenisse in condizioni igieniche ‘naturali’, spargendo il pericoloso parassita nell’ambiente, nel suolo e dunque nei cibi. Ripetendo il ciclo e dando luogo a continue reinfestazioni. Per curare questa parassitosi, però, ha asserito Oeggl, si usavano le felci (che a suo dire sono state impiegate come rimedio fino ad un secolo fa). Del poliporo della betulla, pertanto, nessuna traccia. Possibile? Forse non abbiamo posto la domanda chiaramente o forse abbiamo frainteso la risposta? Ma non siamo stati i soli a sentirla… Ecco un altro mistero da chiarire!

In ogni caso, abbiamo svolto una ricerca per conoscere meglio questo fungo, il poliporo della betulla per il quale, a parte il caso presente, non sono noti ritrovamenti archeologici, o comunque indicazioni sul possibile uso in tempi preistorici. E’ una specie commestibile, per lo meno da giovane, ed è impiegata come tale in Nord America, Asia ed Europa. I Kamchadal della Siberia lo usavano come cibo, consumandolo gelato dopo averlo frantumato. Nella medicina popolare russa, era un rimedio contro il cancro, mentre sembra che il suo thè combatta la fatica, stimoli il sistema immunitario e abbia effetto calmante. Gli abitanti di una zona del Surrey, in Gran Bretagna, lo tagliavano in piccole strisce per poi usarlo come emostatico e le ceneri erano sfruttate in qualità di antisettico. L’uso come esca per il fuoco non sembra che fosse molto diffuso, essendogli preferito il fungo dell’esca propriamente detto, superiore in efficacia anche ad altre specie di polipori come Daedalea quercina, Laetiporus sulphureus var. miniatus e Phellinus ignarius. Una particolare applicazione era quella degli apiculturisti inglesi, che anestetizzavano le api bruciando questo poliporo, ma anche Daedalea quercina.

I principali composti farmacologicamente attivi sono triterpeni (in particolare l’acido poliporenico A, B e C), steroli e l’acido tumulosico. L’acido poliporenico A possiede attività antimicrobica e antiflogistica, l’acido poliporenico C avrebbe mostrato anch’esso attività antimicrobica, contro batteri del genere Mycobacterium e il Bacterium racemosum, mentre in generale l’estratto del fungo è efficace contro il Bacillus megateterium. Altri triterpeni  inibirebbero la crescita di cellule neoplastiche maligne, mentre la piptamina avrebbe effetto antibiotico, soprattutto contro il Bacillus subtilis ed Escherichia coli, oltre che molluschicida contro Biomphalaria glabrata. Sono stati anche individuati betulina e acido betulinico, che sembrerebbero estratti e concentrati direttamente dalla betulla su cui il fungo cresce. La betulla è usata in fitoterapia per la qualità depurativa, digestiva, febbrifuga, antiartritica e contro i parassiti intestinali e le piaghe. In particolare, l’acido betulinico possiede azione antibiotica e sarebbe tossico per il melanoma maligno, senza attaccare le cellule sane. Ulteriori ricerche hanno poi messo in luce l’attività antiparassitaria (in particolare contro il tricocefalo prima menzionato) antinfiammatoria (in particolare contro l’infiammazione cronica della pelle) e la capacità antivirale contro il vaiolo bovino, oltre a quella di prevenire la poliomielite nel topo bianco e nelle scimmie e di contrastare lo sviluppo dei tumori.

Uova di Trichuris trichiura (verme tricocefalo), parassita intestinale umano, visto al microscopio

Non è da escludere un uso magico-spirituale, legato a quello medicinale; infatti, presso certe culture, l’azione medicinale dei polipori in generale è spesso associata all’idea di forza e saggezza. Consideriamo, a titolo di esempio, Haploporus odorus.Questo poliporo è riverito dagli Indiani Americani Blackfoot, Cree e altre tribù. Con esso si fabbricano vestiti sacri e altri oggetti a uso sciamanico, tutti simboli di potere spirituale. Si usa anche per impartire protezione e allontanare le malattie portandolo al collo o bruciandolo. Tra i Cree, si usa come incenso, fumigandolo per “aprire le porte al mondo dello spirito e permettere di vedere e sentire gli spiriti”. Probabilmente, avrebbe anche un uso medicinale.

Nel caso del poliporo della betulla, quest’uso magico-spirituale può essere posto in relazione con la betulla stessa, pianta considerata sacra forse perché un fungo psicoattivo, l’agarico muscario (Amanita muscaria), cresce associato ad essa. Potrebbe essere che le proprietà dell’agarico muscario siano state simbolicamente trasferite sul poliporo della betulla, diventando una sorta di sostituto, ma privo di effetti psicoattivi. Anche il fungo dell’esca cresce sulla betulla e potrebbe avere ugualmente rivestito un valore magico-spirituale, considerando anche che il fuoco fisico potrebbe corrispondere al fuoco spirituale (illuminazione) spirituale, raggiungibile tramite l’ingestione dell’agarico muscario. In ogni caso, l’uso come specie allucinogena del poliporo della betulla non trova riscontro nella letteratura disponibile.

La maledizione di Őtzi:una leggenda metropolitana?

Tempo fa ci era capitato di leggere un singolare libro, scritto da due autori francesi (Guy Benhamou e Johana Sabroux), intitolato La maledizione di Őtzi, che narra della inquietante sequela di personaggi morti in strane circostanze dopo aver avvicinato l’Uomo dei ghiacci a vario titolo. Sembra un po’ la leggenda metropolitana che accompagna un’altra illustre mummia, più ‘giovane’ di Őtzi di svariati millenni, quella del faraone egiziano Thutankamon, morto giovinetto nel XIII secolo a. C., attorno al cui ritrovamento (nel 1922) sono aleggiate cronache di misteriose morti, evocando una sorta di maledizione verso tutti quelli che hanno osato disturbare il suo sonno eterno (si dimentica però che lo scopritore della tomba faraonica, Howard Carter, godette per diversi lustri di ottima salute). Pare che, nella circostanza egiziana, entri in gioco un tipo di batterio che vive all’interno di cripte funerarie o simili e che, all’occorrenza, potrebe divenire fatale per coloro che si avventurano senza alcuna precauzione all’interno di questi ambienti, dopo millenni. Ma nel caso di Őtzi, i batteri non c’entrano nulla. Sono episodi del tutto casuali, dicono gli scettici, indipendenti l’uno dall’altro e soprattutto da Őtzi, chiaramente. Ma per altre persone, come i due citati autori, un nesso con la mummia del Similaun ci sarebbe eccome. Il motivo risiederebbe nel fatto che non voleva essere ritrovata, continuando il suo sonno eterno.

Il primo della lista sarebbe stato il medico legale che per primo maneggiò Őtzi, il dr. Rainer Henn (1928-1992), il quale aveva inizialmente scambiato il cadavere emerso dal ghiaccio per quello di un escursionista travolto da qualche valanga in epoche recenti (non fu il solo). Nonostante fosse un professionista navigato, il dr. Henn – stando a quanto scrivono Benhamou e Sabroux-  venne ripreso dalle telecamere austriache senza i guanti, durante le manovre di estrazione di quel corpo mummificato dal ghiaccio. Pare che anche ciò che si trovava attorno al corpo venne raccolto in fretta e furia del dottore e messo in un sacco, la mummia stessa maneggiata senza troppi convenevoli (non sapeva della sua antichità, molto probabilmente), e trasferita all’Istituto di Anatomia di Innsbruck, dove venne in seguito contestualizzata correttamente e trattata secondo tutti i criteri del caso. Qualche mese dopo, nel luglio del 1992, il dr. Henn e sua moglie si apprestavano a passare le vacanze a Nőtschim-Galital, vicino alla Carinzia, dove era stato invitato a presentare una conferenza dal titolo “Come procedono le ricerche sull’uomo dei ghiacci”. Ma non potè mai farlo: la sua auto venne investita da un’altra che procedeva in contromano ad alta velocità e per lui fu la fine. Era il 25 luglio 1992.

Nel luglio del 1993 morì invece la guida esperta Kurt Fritz (1960-1993), che aveva accompagnato Messner e Kammerlander sul luogo dove si trovava Őtzi, un paio di giorni dopo che i  coniugi Simon l’avevano scoperto. Ironia della sorte, Kurt morì sulla montagna che più amava, l’Ortles, travolto da una valanga staccatasi improvvisamente dalla cima e spinta già da una raffica di vento più violenta delle altre. Anche lui, come Őtzi, sepolto dalla neve.

Nonostante i tanti anni di distanza, anche la morte di Rainer Hőlzl (1962-2004), il giornalista che il 23 settembre 1991 era giunto sul posto del ritrovamento di Őtzi  (acquistando una notorietà invidiabile), potrebbe essere ‘sospetta’ e legata ad una strana forma di ‘maledizione’, secondo i due citati autori francesi! La vera causa fu un tumore al cervello, che lo ha stroncato il 1 giugno 2004.

Nello stesso anno,  il 15 ottobre, morì Helmut Simon (1937-2004), lo scopritore (insieme alla moglie Erika) di Őtzi. Da allora avevano scritto libri e partecipato a conferenze, sentendosi importanti. Dopo la scoperta avevano ricevuto anche una ricompensa perchè quello era a tutti gli effetti un reperto archeologico di estremo interesse per tutta l’umanità. Scomparve un giorno, Helmut, dopo aver detto che andava a fare il suo solito giro sui pendii alpini, a Bad Hofgastein, vicino a Salisburgo (in Austria), mentre con la moglie era in vacanza per cure termali. Per otto giorni non si seppe niente di lui. Venne cercato invano, finchè il suo corpo esanime fu ritrovato con la rottura delle vertebre cervicali, dopo un volo di cento metri tra i crepacci. Qualcuno mormorò che la mummia si era vendicata di colui che l’aveva riportata nella civiltà!

A questo punto i giornali cominciarono a tessere la trama della ‘maledizione di Őtzi’! Si sparse la voce che chi aveva disturbato la mummia e se ne era servito per interessi personali, scompariva in strane circostanze. I diretti interessati iniziavano a crederci? Pare che a non credervi affatto vi fosse l’igienista Friederich Tiefenbrunner (1941-2005), al quale si deve il progetto di conservazione del corpo di Őtzi perchè già poco dopo il ritrovamento la mummia mostrava segni inquietanti di deterioramento. Il batteriologo era un serio professionista, attivo nelle ricerche condotte sul DNA della mummia stessa, ed era stimato da tutti come una persona che non voleva apparire, discreta. Quando si trattò di trasferire la mummia a Bolzano, nella sua nuova sede, dovette ingegnarsi non poco, in quanto non solo si doveva conservarla lontana da contaminazioni ma si doveva anche renderla visibile al pubblico. Pochi sanno che per raggiungere gli idonei parametri ambientali che permettono a Őtzi di mantenersi integro, sono state fatte diverse prove, impiegando cadaveri presi a prestito all’obitorio (sempre secondo i due Autori del libro) e riproducendo diverse soluzioni microclimatiche, fino a che si è raggiunto l’optimum. Cambiando ‘casa’, da Innsbruck a Bolzano, pare che la mummia abbia cominciato a perdere peso; gli scienziati non sapevano che fare, ma si capì che bisognava correggere il grado di umidità. Ogni quattro settimane, un sistema a doccia irrora il corpo di acqua sterilizzata, spruzzata assai finemente, e ciò consente di mantenere i tessuti umidi, mentre un sottile strato di ghiaccio trasparente forma una barriera protettrice sul corpo stesso. Tiefenbrunner è stato geniale e ha salvato la mummia dal disfacimento. Il professore morì durante un intervento chirurgico, il 7 gennaio 2005; i soliti critici sostengono che non avesse speculato su Őtzi, ma che quest’ultimo non abbia gradito di essere esposto in pubblico: per questo la presunta ‘maledizione’ si sarebbe abbattuta ugualmente sullo scienziato. Fantasticherie, certo, ma ciò alimenta il mistero…

Pochi mesi dopo, il 17 aprile 2005, morì un altro personaggio che aveva avuto a che fare con Őtzi, un archeologo che si era opposto alla nuova sistemazione della mummia a Bolzano, appellandosi alla morale e al rispetto universale dovuto ai morti.Il suo nome era Konrad Spindler (1939-2005) e per sette anni si era occupato dell’Uomo dei ghiacci, a Innsbruck;Őtzi lo aveva tratto da una condizione di anonimato e portato alla ribalta dei riflettori. Si sentiva un po’ l’Howard Carter della situazione, ed è comprensibile! Morì affetto da una patologia muscolare degenerativa, mentre -in ospedale- ancora si ostinava a voler scrivere una sorta di compendio sull’Uomo dei ghiacci.

Il 19 ottobre 2005 morì anche un altro studioso che aveva avuto contatti professionali con la mummia del Similaun, il dr. Thomas Loy (1942-2005). Egli faceva parte dell’equipe incaricata delle ricerche, in qualità di archeologo molecolare. Un campo pionieristico, ma come lo gratificava poter lavorare sulle tracce di sangue rinvenute nei pressi della mummia! Loy sapeva della ‘maledizione’, ne scherzava, ma la sua morte fu orribile: quasi ‘sciolto’ per il caldo, nel suo letto di casa. Dopo giorni che non si era presentato all’Università dove insegnava, la polizia venne allertata e, sfondando la porta, si ritrovò davanti uno spettacolo agghiacciante, un corpo liquefatto in avanzato stato di decomposizione. L’uomo doveva essere morto almeno due settimane prima, probabilmente di un accidente vascolare improvviso. Qualcuno dice che stesse scrivendo un libro che faceva il punto delle sue ricerche su Őtzi (libro che non venne mai trovato), altri sottolinearono che questa era la settima vittima della ‘maledizione’. Loy invece era solito dire:”La gente muore. Tutto qui”.

[1] – “L’Uomo del Similaun:la vita, la storia, il suo ambiente”, Bergamo, Teatro Sociale, 17/10/2009

[2] – Per quanto riguarda il fungo dell’esca, la sua presenza in contesti archeologici è quasi sempre in relazione all’accensione del fuoco. In Danimarca (Maglemose), è stato trovato associato a frammenti di pirite e silice, in un contesto ambientale datato almeno al 6.000 a.C., mentre in Inghilterra, nello Yorkshire (Star Carr), reperti di questo fungo, in alcuni casi ancora attaccati a pezzi di betulla, e frammenti di pirite sono stati datati ancora prima. Inoltre, alcuni campioni sono stati trovati nei villaggi su palafitte in Italia e Svizzera, insieme a Daedalea quercina,Ganoderma lucidum e Phellinus ignarius. Il più antico ritrovamento risale a circa 11.000 anni fa. E’ possibile che l’esca usata in passato fosse costituita da semplici frammenti di fungo essiccato che catturavano le scintille prodotte dal contatto di pirite e selce. Fin dai tempi di Ippocrate (V secolo a.C.), il fungo dell’esca si applicava, mentre bruciava, per cauterizzazioni. Questo uso è sopravvissuto fino ai nostri giorni tra Lapponi, Cinesi e Giapponesi. Si usava anche come emostatico da parte di chirurghi, barbieri e dentisti, da cui il nome ‘agarico dei chirurghi’,  mentre una specie di cotone assorbente preparato con questo fungo si applicava esternamente su ferite e bruciature, o come compressa riscaldante. In Europa, si usava contro dismenorrea, emorroidi e problemi alla vescica, in India come diuretico, lassativo e tonico nervino, in Cina contro il cancro dell’esofago e il carcinoma gastrico e uterino. Tra i Khanty della Siberia, questa specie era ridotta in polvere insieme a Phellinus ignariuse inalata, mentre gli Indiani Americani Athapaskan, Eyak, Tanaina e alcuni Eschimesi ne fumano le ceneri, da sole o in miscela con tabacco. Il fungo dell’esca trovava uso anche in rituali di fumigazione tra i Khanty e gli Ainu di Hokkaido, in Giappone, quando lo si bruciava attorno alle case durante tutta la notte, per cacciare gli spiriti malvagi portatori di malattie ed epidemie. Il fungo dell’esca contiene principalmente steroli, fomentariolo e terpeni. Il fomentariolo avrebbe una limitata attività batteriostatica, mentre un polisaccaride isolato da culture miceliari inibirebbe il tumore nei topi. Infine, l’estratto liquido del fungo sarebbe piuttosto efficace nel topo contro una specie di sarcoma.

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