Privacy Policy LA MAGIA DELLE DROGHE: CHIMICA E ALCHIMIA DELL'ESTASI ARTIFICIALE - Micomedicina

LA MAGIA DELLE DROGHE: CHIMICA E ALCHIMIA DELL’ESTASI ARTIFICIALE

LA MAGIA DELLE DROGHE:
CHIMICA E ALCHIMIA DELL’ESTASI ARTIFICIALE

Articolo pubblicato sulla rivista Anthropos & Iatria
e dal sito Airesis: l’Eresia della Scelta, la Scelta dell’Eresia

I veleni divini
Tra i principali reperti archeologici ritrovati in Messico a Guatemala, nelle terre che furono delle civiltà maya a azteca, i più enigmatici furono indubbiamente alcune statuette raffiguranti figure totemiche umane o animali sormontate da un’ampia cappella di fungo e risalenti in alcuni casi, a 3000 anni fa (1). Dalla decifrazione degli antichi codici aztechi e dalle tradizioni magico-religiose degli Zapotechi e dei Mazatechi del Messico meridionale, già registrate dai conquistatori spagnoli, risultava l’esistenza di una misteriosa triade di piante-dee: il fungo teonanacatl, il cactus peyotl e i semi vegetali ololiuhqui, Divinità-cibo attraverso la cui consumazione e mediazione sacerdoti a sciamani raggiungevano il diretto contatto con il soprannaturale a la comunione con gli Dei (2).
All’epoca della prima conquista di Cortés, nel XVI secolo, il missionario francescano Bernardino de Sahagun aveva descritto con pio orrore cerimonie durante le quali gli indigeni si inebriavano con una bevanda intossicante e “diabolica” che procurava loro visioni ed ebbrezze “infernali” e che veniva estratta da un fungo velenoso chiamato appunto teonanacatl (3) (che in lingua Nahuatl significava “carne della divinità”).

Le crudeli e sistematiche persecuzioni perpetrate dalla Chiesa Cattolica a dalla monarchia spagnola contro ogni forma di religiosità magica locale, pur lontane dall’estinguere il culto dei funghi a delle piante sacre e il loro utilizzo sciamanico, ne causarono successivamente la quasi assoluta clandestinità e per più di 300 anni sui segreti vegetali messicani gli Europei non ne seppero molto più del devoto francescano al seguito degli sterminatori. Il mistero del teonanacatl a delle millenarie statuette degli uomini-animali-fungo fu infatti definitivamente svelato solo tra la prima a la seconda metà del nostro secolo. L’etnobotanico americano Richard Evans Schultes, direttore del museo botanico dell’università di Harvard, fu tra i primi ricercatori contemporanei a compiere estese ricerche sulle piante psicoattive, trascorrendo ben 12 anni della sua vita, dal 1941 al 1953, in Amazzonia, Ande e Sudamerica. […]

Nel 1954 il banchiere e micologo autodidatta R. Gordon Wasson, trasferitosi con la moglie nella regione di Oaxaca, nel Messico meridionale, alla ricerca dei funghi sacri, scoprì che l’azteco teonanacatl era il nome sacrale collettivo di una peculiare categoria di funghi allucinogeni della famiglia Psilocybe mexicana la cui utilizzazione cultuale e magica risultava ancora ampiamente diffusa tra le popolazioni locali. Grazie all’amicizia stretta con Maria Sabina, una curandera mazateca, Wasson, sua moglie e altri collaboratori qualificati furono ammessi a una serie di cerimonie sacre segrete che comprendevano la consumazione sacramentale del teonanacatl e sperimentarono così gli sconvolgenti a meravigliosi effetti estatici di visione ed espansione della coscienza ben noti alla tradizione sciamanica. (5)

“Fu come se i muri della nostra casa si fossero dissolti” – dichiarò Wasson nella relazione – “e il mio spirito volato in alto, e io mi trovavo sospeso a mezz’aria […] Sentii che ora stavo vedendo […] vedevo gli archetipi, le idee platoniche che sono alla base delle imperfette immagini della realtà di ogni giorno”. (6) In quel momento l’audace ricercatore americano aveva sfiorato il segreto di una delle più antiche forme universali di comunione col sacro. “Ora voi siete il Fungo” (7) fu detto agli Europei mentre stavano sperimentando qualcosa che alla perseguitata saggezza degli Indios era noto da millenni. Le antichissime ed enigmatiche statuette dell’Uomo-Dio-Fungo rivelavano così il loro sconvolgente significato: l’Uomo che si fa Dio attraverso la comunione con la pianta sacra. “Possibile che il Fungo Divino”, scrisse ancona Wasson, “fosse il segreto nascosto dietro gli antichi Misteri?”. (8)

Fu sulla traccia di questa intuizione che Wasson negli anni successivi strinse un’intima e continuativa collaborazione con il dottor Albert Hofmann dei laboratori di ricerca Sandoz di Basilea, che solo pochi anni prima, nel 1943, analizzando le caratteristiche biochimiche della segale cornuta (un fungo tossico parassitario delle graminacee e particolarmente della segale), aveva isolato a analizzato il più potente allucinogeno di sintesi mai conosciuto: la dietilamide dell’acido D-lisergico (Lysergsäure-Diäthylamid) o LSD. (9) Hofmann sottopose ad accurate analisi i vari tipi di funghi a semi di piante magiche raccolte da Wasson e nel 1958 isolò il principio neuroattivo del teonanacatl: la psylocibina. Parallelamente Hofmann, che coltivava anche interessi etno-antropologici a filosofico-esoterici, scoprì che un’altra mitica droga messicana chiamata ololiuhqui (“il fiore della vergine”) (10) conteneva alcaloidi estremamente simili all’LSD presente nella segale cornuta. (11) Il Tradizionalmente l’ololiuhqui veniva utilizzata per il contatto con gli Dei e per la visione del futuro ed era ottenuta dai semi di una pianta di convolvolo (rivea coryrnbosa), (12) che Wasson aveva identificato e trasportato nelle sue spedizioni.

Su sollecitazioni del noto mitologo a storico delle religioni Kàroly Kerényi, amico di Hofmann, furono constatate notevoli affinità strutturali tra alcune cerimonie rituali indigene messicane e le pratiche misteriche a base estatica della Grecia classica. Si giunse così a ipotizzare che la bevanda sacra offerta agli iniziati nel corso dei Misteri Eleusini per celebrare la loro mistica unione con la Dea Madre Demetra, Signora del grano, il kykeon – citato da Eraclito a da altre fonti – la cui composizione era a base di graminacee, contenesse principi psicoattivi affini a quelli dell’ololiuhqui e della segale cornuta (13) e fosse quindi sostanzialmente a base di LSD. (14)
Dal canto suo Wasson estese le sue ricerche medico-etnologiche ad altri funghi psichedelici e soprattutto dedicò la sua attenzione al velenosisssmo “ovulo malefico”, l’amanita muscaria, che assunta con gli opportuni accorgimenti quantitativi e cerimoniali, rappresentava uno dei più antichi, potenti e diffusi allucinogeni naturali utilizzati per scopi sacri dai guerrieri vichinghi e dagli sciamani siberiani. (15) Data l’ampia diffusione dell’ amanita, con la sua caratteristica forma di fallo in erezione, nelle regioni nordiche originarie dei popoli indoeuropei, oltre che nelle zone del medio a vicino Oriente, Wasson ipotizzò, con un largo margine di sicurezza, che il micidiale fungo fallico costituisse l’ingrediente segreto del mitico soma, bevanda sacra dei sacerdoti vedici e delle loro divinità nell’induismo arcaico, dispensatrice di salute, coraggio, longevità, intuizione e immortalità, sia dell’haoma, analoga bevanda sacra della tradizione iranica, utilizzata per ottenere visioni divine già molto prima della riforma monoteista di Zoroastro. (16)
Insieme al fungo teonanacatl e ai semi ololiuhqui la terza e più importante pianta-dea della tradizione azteca, e poi indio-messicana, fu e resta ancora oggi il piccolo cactus [i]lophophora williamsii[7i], meglio conosciuto come peyotl, diffuso sugli altopiani del Messico settentrionale, che il mito identifica con la carne di una divinità cornuta, il Daino Celeste e le cui proprietà furono rivelate in sogno a una donna. (17) Allucinazioni visive, auditive a olfattive, visioni colorate a geometriche, sovreccitazione sensoriale, distorsione percettiva, dilatazione generale della coscienza sono i principali effetti – simili peraltro a quelli di LSD e psilocybina – ottenuti attraverso l’ingestione rituale dei bottoni vegetali del peyotl, chiamati dagli indigeni mescal e dai quali, nei primi anni del secolo, fu isolato chimicamente il principio attivo principale responsabile dei poteri del cactus: la mescalina, un alcaloide derivato dall’ammoniaca. (18)

Dalle Americhe all’Europa, dall’Asia all’Africa fino ai più remoti angoli del mondo, in stretta connessione con le tradizioni sciamaniche a misteriche, magiche o religiose di diversi popoli a razze, ritroviamo questa intima simbiosi tra l’universo simbolico del divino, i misteri del mondo vegetale e la ricerca del sacro nell’uomo a nella donna. La scienza spagirica tradizionale di sacerdoti, magi a sciamani – che spesso furono di sesso femminile data la maggiore connessione della donna con le più nascoste energie della natura – ha fornito per millenni una serie di tecniche codificate sull’utilizzo delle sostanze divine o “cibo degli Dèi” come pane della sapienza a dell’esperienza magica.

Nell’autentica, primordiale celebrazione di un’Eucaristia, o cannibalizzazione della Carne di Dio, di cui la nota cerimonia cristiana non fu che la degradazione pallida e riduttiva, le droghe sacre sono state mangiate, masticate, bevute, inalate, fiutate, fumate o spalmate sui corpi, in ogni tempo e sotto ogni latitudine. Esse hanno rappresentato uno dei propellenti primari per la reale conquista del Divino, una conquista tanto spirituale quanto bio-chimica e fisio-psichica. Unite inestricabilmente e ritualmente a una corretta disciplina dell’emozione e della psiche, queste sostanze hanno suscitato a possono suscitare l’esplorazione dei mondi interiori e l’espansione della coscienza e dei sensi umani, fino all’incremento apparentemente sovrannaturale delle facoltà fisiche di vista, udito, forza muscolare, velocità e resistenza a calore, gelo, fame, sete, sonno, fatica. […]

Tra le piante psicoattive a effetto estatico di utilizzazione più ampia e più antica risulta certamente la cannabis sativa e particolarmente la sue variante cannabis indica (canapa indiana), originaria dell’Asia e diffusasi attraverso i secoli in gran parte del mondo. Dai suoi fiori a foglie disseccati e tritati si ottiene la marijuana, che può essere fumata, inalata o bevuta in decotto, mentre la resina della pianta femmina è generalmente conosciuta con il nome arabo di haschis e, oltre che fumata, può essere masticata a mangiata. (19) L’ uso cerimoniale, magico e misterico della cannabis è attestato già nell’Egitto faraonico, nella Cina del II millennio a.C., nell’India vedica a nell’Impero assiro, come risulta da una tavoletta di Assurbanipal dell’VIII secolo, dove la pianta droga è denominate qunnapu. (20) Erodoto nel IV libro delle Storie racconta che gli Sciti, nomadi del Mar Nero, usavano le fumigazioni prodotte dai semi di cannabis, gettati su appositi bracieri, per raggiungere stati di ebbrezza e voluttà e per purificare il corpo. (21)

Il giardino profanato
Ogni culture tradizionale ha amministrato il proprio “giardino magico” traendone il massimo dei vantaggi e il minimo dei rischi. Le piante dee e i loro prodotti sono sempre stati venerati a utilizzati secondo criteri a ritualità precisi a opportunamente circoscritti, anche se le cronache storiche registrano segmenti di tempo e cicli storici nel corso dei quali l’estasi e l’ebbrezza artificiale sono tracimati oltre i confini del sacro, pervadendo di sé anche la vita profane, ricreativa a sensuale. Ma pur in queste circostanze restarono sconosciute ai popoli pre-moderni, e quindi non condizionati dal dualismo schizoide di matrice giudeo-cristiana, la devastante assuefazione e successive dipendenza psichica e fisica come fenomeni di masse generati dalla diffusione di alcune tra queste sostanze all’interno della civiltà a della culture moderne. Non va dimenticato che tra i prodotti del giardino incantato ve ne sono un certo numero la cui utilizzazione non controllata, o scorporata dal contesto culturale e sacrale originario, risulta particolarmente pericolosa e il cui abuso tende a produrre gravissimi danni psichici a fisiologici culminanti in una suicide a inesorabile dipendenza.[…] Emblematicamente tra gli innumerevoli a millenari frutti di questo Giardino degli Dei furono proprio tre fra i maggiormente insidiosi ad avere le più strette e ambivalenti connessioni con le culture succedutesi dalla caduta del mondo pagano ai giorni nostri. Una triade di sostanze sacre, utilizzate fin dalla più remote antichità, ma il cui incanto corrode l’anima e il corpo di coloro che ne consumano la profanazione: alcol, tabacco e oppio. […]

Sia l’alcol che il tabacco e l’oppio, ben prima di essere trasformate in droghe sociali di massa, furono retaggio sacrale e culturale di intere civiltà. Molto ampia sarebbe la lista delle bevande fermentate il cui principio attivo è l’alcol etilico utilizzate fin dai tempi preistorici dai popoli più diversi allo scopo di indurre un’ebbrezza sacra e profana al tempo stesso. Un’ebbrezza capace tra l’altro, negli opportuni contesti cultuali, di rimuovere la barriera che divide uomini e donne dagli Dèi (o dalle profondità arche tipiche dell’inconscio), generando una profonda e totalizzante comunione collettiva col Sacro. Basti ricordare le più note a diffuse: il vino, prodotto dalla fermentazione dell’uva e collegato dai Traci, e poi dai Greci, ai Misteri di Dioniso; e la birra, ottenuta dalla fermentazione dei cereali (orzo, mais, ecc.), la cui origine fu attribuita dai Celti al potere di Cernunno, il Dio Cornuto dell’estasi a della fertilità. (22) Il tabacco, originario delle Americhe nelle sue due specie principali (Nicotiana tabacum L. a N. rustica L.) , fu considerato già dagli Aztechi come il corpo della Dea Cihuacoatl (23) e trovò una diffusissima utilizzazione sacramentale da parte degli sciamani sia amerindi che pellerossa, i quali usavano fiutarlo o fumarlo, in quantità anche enormi, allo scopo di indurre trance estatiche o allucinatorie.
Quanto all’oppio, le sue elevate qualità sia terapeutiche che psico-neurologiche, nonché la pericolosità a l’ambivalenza del suo utilizzo, erano già note ai Collegi sacerdotali egizi (che lo denominarono shepen) e babilonesi, nonché tra i Sumeri (presso i quali era conosciuto come hul gil “la pianta della gioia”) (24) e tra i Greci, come certificato da Omero che ne cita l’uso nel IV Libro dell’Odissea celandolo sotto il nome di nepente. (25) L’estrazione del succo lattiginoso di oppio dalle capsule non maturate del papaver somniferum, o papavero da oppio, ben descritta da Dioscoride, medico di Nerone, fu sempre nota agli Arabi come agli Europei fino al Cinquecento, quando il medico, mago e alchimista Paracelso ne ottenne, per primo, il laudano (tintura di oppio in alcol), utilizzato come medicinale e come droga psicoattiva fino a tutto il XIX secolo. […] Nel 1805 Friedrich Sertürner, un chimico tedesco, isolò uno dei principali alcaloidi contenuti nell’oppio, la morfina e nel 1898, sempre in Germania, venne prodotto un suo derivato, la diacetilmorfìna, meglio conosciuta come eroina. Le proprietà narcotiche a psicoattive della morfina, del suo etere metilico (codeina) a soprattutto dell’eroina sono sproporzionatamente squilibranti e tossiche a hanno la principale caratteristica di indurre in breve tempo, nella generalità degli individui psichicamente a culturalmente impreparati al loro utilizzo, un’assoluta dipendenza sia psicologica che fisica.[…]
IL VOLO MAGICO


Alcuni stati alterati di coscienza, indotti con prodotti psicoattivi, contrassegnano l’attività simbolica di operatori dì magia e medicina in culture “altre”. [1] Lo sfruttamento di questi prodotti costituisce una pratica molto diffusa, in particolare nel passato, all’interno di quelle società tradizionali che relazionano gran parte della propria quotidianità all’universo degli spiriti e delle entità presenti nell’aldilà e in un mondo parallelo.
Secondo Giorgio Samorini non può essere casuale il fatto che, “presso tutti i popoli, i rapimenti estatici di trance – considerati tra gli stati più elevati della coscienza – vengano culturalmente interpretati come fenomeni di squisito carattere mistico, spirituale, religioso. Anzi, è da ritenere che l’origine del rapporto dell’uomo con gli stati modificati di coscienza sia direttamente connessa alla nascita del suo impulso religioso”. [2]

Sono numerose le sostanze naturali che hanno un effetto diretto sulle attività della mente e destinate a produrre effetti facilmente relazionabili alle esperienze magico-religiose. Tali stati sono detti psichedelici e derivano la loro definizione dall’unione di due parole greche: psyche (anima) e deloun (manifestare); il termine è stato coniato da Humphry Osmond (1917-2004), uno dei pionieri della psicoterapia a indirizzo psichedelico, che ha utilizzato mescalina e LSD per curare alcune patologie comportamentali. Tra le sostanze che fanno parte degli ingredienti della magia psichedelica, si annoverano molecole molto semplici (protossido di azoto, etere, alcol etilico) accanto ad altre complesse come l’acido lisergico dietilammide (LSD). Naturalmente, l’esperienza psichedelica che costituisce il patrimonio del mago tradizionale non si avvale di prodotti di sintesi, ma sempre di origine naturale: infatti, le sostanze psichedeliche sono presenti in varie famiglie botaniche, come ad esempio i funghi (Amanita muscaria, Psilocybe mexicana); vi sono anche piante con infiorescenze, alcune delle quali, se usate in modo sbagliato, risultano estremamente velenose, come le solanaceae, il giusquiamo o la belladonna. Gli studi più approfonditi sull’argomento, pur avendo notevolmente ampliato la conoscenza sul tema, non hanno comunque completamente chiarito come si esplichi l’azione degli psichedelici sulla mente. In genere ci si limita a descriverne gli effetti interrogandosi se questi possano, e perché, essere interpretati come esperienze concrete, magiche e, in certi casi, religiose.

Un esempio indicativo è costituito dal cosiddetto “culto del peyote”. I conquistadores spagnoli, quando giunsero in Messico, scoprirono che gli Aztechi veneravano tre piante: il teonanacatl (un fungo), l’ololiuqui (una vite) e il peyote (un cactus). Quest’ultimo era conosciuto, dagli autoctoni, come la “Carne degli dèi”. Gli spagnoli cercarono di soffocare questo culto perché considerato diabolico e pertanto i riti e le proprietà di questa pianta non andarono oltre il territorio azteco. Nel XX secolo però l’uso di questo cactus, con tutte le sue implicazioni allucinogene e rituali, giunse in Occidente e divenne oggetto di studi approfonditi, sia dal punto di vista farmacologico sia antropologico. Gli aspetti magico-sacrali connessi al peyote sono abbastanza evidenti, soprattutto per quanto riguarda la pratica legata alla ricerca della singolare pianta.
In effetti, quando gli adepti incaricati iniziano il loro lavoro di ricerca, le singole fasi assumono le tonalità del rito. Dopo aver raccolto il peyote, all’interno di una tenda si svolge una cerimonia che, per tutta la notte, ha lo scopo di sacralizzare il prodotto e renderlo magicamente attivo e quindi sfruttabile dalla comunità. Assumendo il peyote, ogni individuo assorbe un po’ del potere soprannaturale che proviene dal mondo degli spiriti, e da queste entità ottiene indicazioni e conoscenze difficilmente raggiungibili attraverso i normali canali di percezione. La visione è preceduta da un periodo di digiuno che ha lo scopo di favorire l’accentuarsi dello stato alterato di coscienza.
Come hanno dimostrato numerosi studi condotti da psichiatri e antropologi specializzati in etnomedicina, le esperienze provenienti dal culto del peyote dipendono, in una certa misura, dalla quantità di prodotto ingerito, ma è soprattutto l’ambiente a giocare un ruolo determinante. Infatti, è stato dimostrato che quando il peyote o la mescalina (il suo alcaloide principale) viene assunto da individui avvezzi a questa pratica in ambiente non autoctono, gli effetti che ne derivano sono di natura molto diversa [3]. A. Huxley ha indicato l’esperienza psichedelica come occasione per cercare delle “porte nel muro” utili per condurre l’uomo a “trascendere l’individualità autocosciente”: in pratica occasioni destinate a fornire l’opportunità per sfuggire dalla vita ordinaria, che hanno trovato la loro applicazione anche nel mondo occidentale attraverso esperienze come “il Carnevale, la danza, la religione”… Tale occidentalizzazione dello stato alterato di coscienza, per quanto interessante, è un aspetto molto lontano da quello caratterizzante le società tradizionali, in cui l’uso di allucinogeni è prevalentemente connesso alla ricerca di un “fine”.

Sulla scia del culto del peyote possono essere poste anche le pratiche magiche effettuate con l’utilizzo dei funghi allucinogeni. A differenza della mescalina, i funghi sono stati oggetto di una sorta di enfatizzazione (in positivo o in negativo) da parte degli occidentali. Infatti, essendo presenti anche in Europa e suddivisi in due categorie elementari ma determinanti (velenosi e commestibili), il loro ruolo è stato così notevolmente ridotto e soprattutto volgarizzato [4].
Sinteticamente quindi, la cultura dei popoli indoeuropei può essere suddivisa in due gruppi: i micofili e i micofobi. “Per i micofìli, i funghi sono affascinanti, eccitanti, gradevoli e talora sacri. Per i micofobi, invece, i funghi sono pericolosi, manifestazioni di parassitismo e di putrefazione e associati ai demoni. Gli spagnoli che conquistarono gli Aztechi erano evidentemente micofobi: essi perseguitarono i mangiatori di funghi così radicalmente che l’uso del fungo sacro fu dimenticato dalla maggior parte degli abitanti del Messico” [5].
Molti ricercatori sono convinti che la micofobia prevalente nel mondo occidentale abbia impedito l’emergere di un culto del fungo come invece si è verificato in altri paesi. In Messico e in Guatemala il fungo è usato in alcune tribù di indios (Mazatechi, Chinantechi, Chatino, Zapotechi, Mixtechi, Mixe) con funzioni divinatorie e magiche.
Qui, a differenza di quanto abbiamo visto nel caso del peyote, il fungo è diventato anche “oggetto sacro”, come è dimostrato da numerosi manufatti, cioè le “Pietre-fungo” scolpite al fine di ottenere la tipica forma e poste in luoghi considerati sacri dalle società in cui il prodotto era utilizzato a fini magico-sacrali. I ritrovamenti più antichi provengono dal Guatemala e risalgono al 1500 a.C.
Spesso i funghi allucinogeni sono dominio dei curanderos che non possono svelare le loro conoscenze a chi non fa parte della categoria degli sciamani. In genere, l’assunzione di funghi consente visioni che hanno la proprietà di favorire la divinazione: lo stato alterato offre al curandero l’opportunità di scoprire quale diagnosi adottare, inoltre fornisce indicazioni per ritrovare persone, animali e oggetti smarriti. I curanderos svolgono la loro attività seguendo – nello stesso modo degli sciamani – un disegno superiore, già prescritto e dal quale non si possono sottrarre. Il fungo “parla” per mezzo della voce del guaritore, dopo tutta una serie di pratiche rituali che naturalmente si differenziano nelle varie aree geografiche in cui è ancora diffusa la cultura sciamanica.

Secondo V. Pavlovna e R. G. Wasson, “ci sono popoli in Siberia che hanno venerato un certo tipo di fungo (l’amanita muscaria) dall’antichità fino ai giorni nostri. Si ritiene che l’uso di questo fungo fosse già noto agli Ari che discesero nella valle dell’Indo nel II millennio d.C. I sacerdoti, infatti, avevano divinizzato una pianta chiamata soma, che non è stata mai identificata e che era usata per suscitare visioni ed era considerata un inebriante divino. Da essa era estratto un succo che veniva immediatamente bevuto dai sacerdoti. Alcuni studiosi hanno affermato che il soma doveva essere alcool o hashish, anche se la maggior parte delle testimonianze indirizza verso l’amanita muscaria“.
Gli effetti si differenziano notevolmente tra un fungo e l’altro e tra un’area di adozione e l’altra. Ad esempio l’amanita muscaria siberiana produce i propri effetti dopo una ventina di minuti dall’assunzione e persiste per alcune ore: il primo stadio è quello del sonno, in cui lo sciamano sperimenta una serie di visioni colme di effetti cromatici. Al risveglio il soggetto è caratterizzato da uno status di eccitazione e si sente capace di imprese che richiedono forze fisiche eccezionali. Quindi, come tra i curanderos messicani, il fungo “parla” per voce di chi l’ha ingerito.
A differenza dei funghi messicani che producono i loro effetti attraverso due sostanze specifiche (la psilocibina e la psilocina), l’Amanita muscaria non contiene questi allucinogeni e probabilmente gli effetti che produce sono determinati dal muscimolo, un aminoacido abbastanza raro.

È da considerare un contributo importante l’arte rupestre degli Indiani d’America (ma anche in altre culture, se pur in misura minore): infatti, alcune incisioni astratte, figurative e altre mostruose, sarebbero la trasposizione iconografica di immagini “viste” dagli sciamani in occasione dei “voli” condotti in stato di coscienza alterato [6].
Campbell Grant, uno dei maggiori studiosi dell’arte degli Indiani nord-americani, ci ricorda che “si ritiene comunemente che la maggior parte delle pitture rupestri dell’ovest degli Stati Uniti siano di natura cerimoniale, e che furono eseguite da sciamani, oppure sotto la loro direzione” [7]. Tra i soggetti dell’arte degli sciamani indiani, reperibili sulla pietra, spiccano complicate soluzioni grafiche, molto spesso colorate o direttamente dipinte; figure antropomorfe marcatamente realistiche, che impersonano esseri soprannaturali.


L’arte degli indiani Huichol indica l’importanza del peyote
in una trinità che riguarda l’uomo e la pianta


Secondo il parere degli studiosi di etnomicologia, l’incontro dell’uomo con i funghi allucinogeni risalirebbe all’Età della Pietra, dando origine a culti sciamanici e religiosi, alcuni dei quali conservatisi fino ai giorni nostri. Il reperimento di questi prodotti all’interno del complesso di elementi che costituiscono l’attrezzatura di alcuni maghi, sembrerebbe confermare il loro ruolo fondamentale nell’orizzonte magico-visionario della cultura sciamanica. Aggiungiamo che, recentemente, Riccardo Scotti ha suggerito, avvalendosi di una notevole base documentale, l’ipotesi che anche alcuni fenomeni connessi alle visioni che hanno interessato mistici ed eremiti cristiani, fossero prodotti dall’uso di funghi allucinogeni [8].

Rispondi