I funghi allucinogeni
possono avere un uso terapeutico ?
Uno studio britannico ha evidenziato gli effetti positivi della psilocibina, ribaltando la vecchia certezza che essa faccia aumentare l’attività cerebrale. In realtà, la rallenterebbe e potrebbe aiutare le persone a conservare i ricordi in maniera più vivida, riducendo l’ansia. Ma non tutti i medici sono d’accordo di SARA FICOCELLI
“TURN ON, tune in, drop out”, “accenditi, sintonizzati, sganciati”. Con queste parole lo psicologo Timothy Francis Leary negli anni Sessanta invitava gli studenti di Harvard a svegliare la mente, “distaccandosi da ciò che involontariamente restringe la libertà d’azione”. Frainteso dall’opinione pubblica, ma apprezzato dai neuroscienziati, quello che fu considerato il “profeta” dell’LSD sarebbe stato fiero dei colleghi dell’Imperial College di Londra, che in due studi pubblicati su Proceedings of the National Academy of Sciences e sul British Journal of Psychiatry hanno dimostrato gli effetti positivi della psilocibina: il principio attivo dei funghi allucinogeni sarebbe capace di diminuire l’attività cerebrale e di aiutare le persone a mantenere i ricordi più vividi. Secondo i ricercatori, inoltre, potrebbe ora essere usato a scopo terapeutico, passando dalle porte della percezione a quelle dei laboratori farmacologici, senza passare dal proibizionismo.
In particolare, gli studiosi avrebbero scoperto che le immagini geometriche e la vivida immaginazione che si sperimentano sotto l’influsso dei funghi psicoattivi non sono, come ritenuto finora, il risultato di un aumento dell’attività cerebrale, bensì di una sua riduzione; fenomeno che potrebbe spiegare la liberazione della mente dai vincoli abituali. “Un risultato del tutto inaspettato”, ha detto il coordinatore dello studio, David Nutt, dell’Imperial College di Londra, precisando che “quando si ottiene esattamente l’opposto di quello che si prevedeva, sai che è un risultato giusto, perché non c’è parzialità”.
Essendo la psilocibina illegale, il team ha dovuto faticare un bel po’ per portare a termine lo studio, col timore costante che i volontari sperimentassero il famoso “bad trip”. Soggetti “volontari”, già avvezzi all’uso di certe sostanze, sono stati sottoposti a risonanza magnetica funzionale (che misura la risposta emodinamica correlata all’attività neuronale del cervello) prima e dopo la somministrazione endovenosa di psilocibina. Il flusso di sangue e l’attività cerebrale dei primi 30 hanno rivelato una diminuzione dell’attività nella corteccia prefrontale mediale (un’area coinvolta nelle emozioni, nell’apprendimento, nei processi della memoria e nelle funzioni esecutive) e in quella cingolata posteriore, la cui funzione è però meno chiara.
Il team ha poi utilizzato i dati per valutare come la connettività funzionale tra queste due regioni cerebrali vari nel corso del tempo, e ha scoperto che la loro disattivazione è reciprocamente legata. Le due regioni sono infatti connesse da una rete chiamata Default-mode network (DMN) che integra funzioni cerebrali come sensazioni, ricordi e ambizioni. “E’ un meccanismo che stabilisce chi sei e come vedi il mondo”, ha detto Nutt. Una riduzione dell’attività del DMN potrebbe quindi, secondo gli autori di questa ricerca, consentire una modalità di conoscenza priva di vincoli, tipo quella sperimentata nel 1960 da Leary durante una vacanza in Messico, grazie ai “funghetti magici”.
Un secondo studio, condotto su altre 10 persone, avrebbe anche dimostrato che i ricordi, sotto l’effetto della psilocibina, migliorano e che la sostanza influisce positivamente su ansia e depressione. “Questi hub vincolano la nostra esperienza del mondo e la tengono in ordine. Ora sappiamo che la disattivazione di queste regioni porta a uno stato in cui il mondo viene vissuto con stupore, come qualcosa di strano”, ha aggiunto Nutt.
Secondo Rosanna Cerbo, neurologo psichiatra della Sapienza di Roma, non ci sono però dati sufficienti per parlare di una possibile efficacia terapeutica. “Gli studi che sono stati fatti finora dimostrano effettivamente dei vantaggi per il cervello – spiega – ma solo perché queste sostanze tolgono l’ansia. L’unica efficacia possibile, almeno a livello di quelle sperimentate finora, sta nella loro funzione ansiolitica”.
“I risultati dell’esperimento – spiega Enrico Cherubini, coordinatore del settore di Neurobiologia della Sissa di Trieste, la Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati, e presidente della Società Italiana di Neuroscienze – sono stati riscontrati in aree cerebrali associative di fondamentale importanza per l’integrazione delle funzioni cognitive. Quindi è davvero plausibile che tali sostanze, riducendo l’attività cerebrale e inibendo questi collegamenti, abbiano effetti benefici sulla psiche, soprattutto in chi soffre di depressione. L’effetto distensivo delle droghe psicoattive è conosciuto da tempo; approfondirne le possibilità terapeutiche mi sembra una cosa molto interessante”.
Questo non significa che da domani le sostanze allucinogene come la psilocibina verranno utilizzate disinvoltamente dalle case farmaceutiche e somministrate con altrettanta leggerezza dagli psichiatri, anche perché in agguato c’è sempre il rischio di dipendenza. “La psilocibina – ha concluso Nutt – potrebbe essere somministrata solo un paio di volte sotto la supervisione di un terapista. Con la speranza che, alla fine del processo, non si sia più dipendente dai farmaci. Sarebbe come aprire una porta e mostrare che c’è un altro modo di essere”.
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