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Fungo Vs Uomo :Un fungo letale si riproduce sessualmente

COSÌ L’ASPERGILLUS FUMIGATUM, PRINCIPALE AGENTE DI INFEZIONE IN PAZIENTI IMMUNODEPRESSI, SVILUPPA PIÙ VELOCEMENTE LA FARMACORESISTENZA

 

Un gruppo di ricercatori in Irlanda e Regno Unito ha scoperto che un fungo letale, l’Aspergillus fumigatus, si riproduce sessualmente. La scoperta rappresenta una tappa fondamentale nello studio di questo agente patogeno, responsabile del decesso del 50% dei pazienti immunosoppressi infetti. Lo studio, finanziato in parte da una borsa Marie Curie erogata dall’Unione europea, è stato pubblicato sulla rivista Nature.Le spore del fungo A. fumigatus sono diffuse nell’atmosfera e di norma (anche se tutti ne inaliamo regolarmente alcune) un sistema immunitario in buona salute è capace di eliminarle. Un sistema immunitario indebolito, invece, viene facilmente colonizzato da questo fungo opportunista, che viene trasmesso per via aerea. L’infezione da A. fumigatus è la principale causa di mortalità nei pazienti affetti da leucemia o sottoposti a trapianto del midollo spinale.Le spore sono inoltre associate a gravi condizioni asmatiche e a sinusiti allergiche negli esseri umani, e ad aspergillosi (mummificazione) in colonie di api mellifere.Il fungo, che svolge un ruolo importante nel riciclo dei nutrienti del terreno, è stato descritto per la prima volta 145 anni fa ed è stato da allora oggetto costante di ricerca. Fino a questa recente scoperta, si era osservata nel fungo soltanto una forma di riproduzione asessuata. La riproduzione sessuata permette agli organismi di diversificarsi e adattarsi, un tratto particolarmente auspicabile nel caso dei funghi benefici. La scoperta di geni legati al sesso nei funghi patogeni ha importanti implicazioni per quanto riguarda il controllo delle infezioni micotiche.

Il dott. Paul Dyer dell’Università di Nottingham nel Regno Unito, un esperto dello sviluppo sessuale e delle variazioni demografiche dei funghi, ha commentato che la scoperta rappresenta al tempo stesso una buona e una cattiva notizia.”La cattiva notizia è che ora sappiamo che l’Aspergillus fumigatus può riprodursi sessualmente, il che implica una maggiore probabilità di sviluppare più velocemente resistenza ai farmaci antimicotici e una maggiore capacità di sopravvivenza delle spore in condizioni ambientali rigide. La buona notizia è che la recente scoperta del ciclo sessuale può rivelarsi uno strumento prezioso per gli esperimenti di laboratorio che mirano a capire secondo quali meccanismi il fungo sia causa di infezioni e scateni reazioni asmatiche.”

Il dott. Dyer e Céline O’Gorman, dottoranda dell’University College di Dublino, in Irlanda, hanno condotto un’approfondita analisi genetica su una popolazione ambientale irlandese di A. fumigatus, composta da 91 diversi gruppi isolati raccolti in 5 punti a Dublino nel 2005. Dopo aver osservato le strutture riproduttive sessuali del fungo al microscopio luminoso e al microscopio a scansione elettronica, hanno suddiviso i campioni in base a tutte le possibili combinazioni di “accoppiamento”. Le coppie di funghi sono state incubate al buio.I ricercatori hanno notato che la riproduzione era eterotallica, ossia la riproduzione sessuale avveniva soltanto quando gli isolati erano di polarità complementari. Il fallimento dei tentativi precedenti volti a indurre la riproduzione sessuale nell’A. fumigatus potrebbe essere dovuto al fatto che, secondo i risultati dello studio, le condizioni ambientali necessarie a favorire l’incrocio sarebbero fortemente specifiche.Secondo l’ipotesi più probabile, in natura, il processo avverrebbe all’interno di cumuli di compost, ma nessuno ha ancora mai studiato il fungo in queste condizioni, ha dichiarato O’Gorman a CORDIS Notiziario. Nel caso della ricerca in oggetto, gli scienziati hanno fatto crescere il fungo ad alte temperature, utilizzando una base di agar preparata ad hoc (con farina di avena). La coltivazione è inoltre durata sei mesi pieni, un periodo di tempo nettamente superiore a quello degli studi precedenti. La combinazione di questi fattori potrebbe aver permesso di replicare le condizioni dei cumuli di compost, ha commentato O’Gorman.Inoltre, l’analisi genetica dell’A.fumigatus ha portato a interessanti intuizioni. “Una volta compresa la base genetica dell’infezione sarà possibile sviluppare metodi per controllare e sconfiggere il fungo”, ha detto il dott. Dyer.”La scoperta del ciclo sessuale nell’A. fumigatus ha permesso di comprendere meglio la biologia e l’evoluzione della specie”, ha concluso lo studio. Contribuisce, infatti, a spiegare l’esistenza di così tante varietà di funghi (che non si avrebbero in caso di riproduzione clonale) e la presenza nel fungo di geni legati al sesso; nonché alcuni aspetti dell’evoluzione del genoma dell’A. fumigatus e la capacità delle spore di sopravvivere anche in condizioni ambientali avverse.Le scoperte fanno luce sugli aspetti biologici di questa specie micotica importante da un punto di vista clinico e sulla sua resistenza ai farmaci antimicotici. I risultati di questa ricerca porteranno, si spera, allo sviluppo di cure più efficaci e di nuove modalità di controllo dell’infezione da A. fumigatus.

 

Redazione MolecularLab.it (13/05/2009)

Fungo Vs rane

 

Nel corso degli ultimi due decenni il pianeta ha assistito alla progressiva scomparsa di alcuni degli animali più importanti e meno compresi della biosfera: gli anfibi. Un fungo parassita, il Batrachochytrium dendrobatidis, causa in rane,salamandre e altri anfibi una gravissima malattia della pelle, la chitridiomicosi, che in alcuni casi ha portato intere specie verso l’orlo dell’estinzione.Alcune popolazioni di rane, gli anfibi che sembrano più suscettibili al fungo, sono scomparse nel giro di poche settimane, intere specie sono svanite da tempo dal loro habitat naturale, ma alcuni anfibi come salamandre e gimnofioni (anfibi privi di zampe) sembrano possedere difese immunitarie più forti.Perchè alcune specie si ammalino e svaniscano completamente, mentre altre resistono all’aggressione del fungo, è ancora un mistero. Come lo è anche il fatto che alcune popolazioni di rane appartenenti ad una specie gravemente colpita dalla chitridiomicosi riescano a sopravvivere senza troppi problemi.Il B. dendrobatidis è un fungo che infetta la pelle degli anfibi, impedendo loro di respirare correttamente e di assorbire i nutrienti necessari alla sopravvivenza. E’ probabilmente originario dell’Africa, ed è stato identificato in un esemplare di rana Xenopus laevis risalente al 1938, specie spesso utilizzata come animale da terrario o da laboratorio. La sua diffusione può essere stata favorita anche dalla rana toro, una specie largamente diffusa e che ha la spiacevole tendenza a sfuggire dalla cattività.Il fungo causa generalmente la morte dell’ospite in 1-2 settimane, ma in determinate condizioni può sopravvivere per oltre sei mesi, dando modo agli esemplari infetti di contagiare altri anfibi. Considerando che il tasso di letalità può arrivare al 100% in alcune specie, che non c’è ancora alcuna soluzione definitiva per combattere il fungo, e che circa il 30% degli anfibi del pianeta sembra essere infetto (oltre 350 specie coinvolte), la situazione non è delle più semplici da risolvere.E’ facile intuire che comprendere il meccanismo di infezione e di resistenza alBatrachochytrium dendrobatidis sia un elemento chiave per attuare strategie di salvaguardia nei confronti degli anfibi. E’ per questo motivo che un gruppo di ricercatori della Cornell University ha intrapreso una serie di ricerche per identificare i possibili fattori genetici che rendono alcune rane resistenti al fungo letale.I ricercatori hanno prelevato alcune rane leopardo (Lithobates yavapaiensis) da cinque località diverse dell’Arizona per esporle al fungo che causa la chitridiomicosi, e verificare la loro resistenza all’infezione. Tutte le rane raccolte in tre differenti località sono morte, ma quelle prelevate da altre due popolazioni sono sopravvissute, e hanno sconfitto l’infezione nel giro di due settimane senza apparentemente riportare conseguenze sul lungo termine. Rane sostanzialmente identiche, ma risultati diversi.Il team ha inviduato le differenze genetiche tra le rane morte e sopravvissute nel Complesso Maggiore di Istocompatibilità (MHC), un sistema che negli anfibi consente di “presentare” elementi estranei all’organismo dando inizio ad una risposta immunitaria.”Tutti gli anfibi (in realtà, tutti i vertebrati) hanno i geni MHC che giocano lo stesso ruolo di ‘innesco’ per iniziare la risposta immunitaria” spiega Anna Savage, leader della ricerca. “Per cui la nostra scoperta che i geni MHC contribuiscono ai risultati della chitridiomicosi ha potenziali ramificazioni per tutte le specie di anfibi attualmente minacciate dal Batrachochytrium dendrobatidis”.Le rane sopravvissute sembrano appartenere a popolazioni esposte in modo massiccio al fungo fin dagli anni ’70, periodo in cui il B. dendrobatidis venne rilevato per la prima volta in Arizona. E’ possibile che queste rane riescano a resistere all’infezione perchè hanno già attraversato una durissima fase di selezione naturale in cui solo gli esemplari più forti sono sopravvissuti.Il passo successivo sarà quello di comprendere se è possibile che altre specie possano sfruttare questo meccanismo per sviluppare una resistenza al fungo. “Anche se il nostro studio alimenta nuove speranze sul possibile ritorno alla normalità degli anfibi dalla chitridiomicosi, non elimina la necessità di strategie di conservazione da parte dell’essere umano” spiega Savage. “La riduzione dell’habitat naturale, le specie invasive, i pesticidi e la degradazione dell’ecosistema sono altre ragioni importanti che portano all’estinzione degli anfibi; e se possiamo lavorare per fornire un buon habitat in modo tale che le dimensioni e la diversità genetica della popolazione di anfibi possano aumentare, loro avranno più possibilità di ottenere la capacità genetica di adattarsi al fungo Batrachochytrium dendrobatidis”.

Frog killer immune genes revealed

 

Fungo Vs biodiversità

 

Roma 24 Maggio  La scoperta è sensazionale ed alquanto agghiacciante: il 65 per cento delle estinzioni di specie animali e vegetali avvenute negli ultimi due decenni non è imputabile agli esseri umani (almeno non direttamente) bensì ai funghi. La scoperta è stata condotta da un gruppo di ricerca coordinato da Matthew Fisher dell’Imperial College London, in Gran Bretagna, e pubblicato su Nature.Finora il problema dei funghi era stato considerato di tipo esclusivamente agricolo (danni alle colture alimentali), adesso lo spettro si amplia anche all’ambiente.Il gruppo di ricerca sentenzia:” E solo monitorando la diffusione delle infezioni fungine e intervenendo preventivamente si potranno evitare conseguenze ancora peggiori per la biodiversità”. I dati sono sotto gli occhi di tutti : ogni anno vengono distrutte mediamente 125 milioni di tonnellate di mais, grano, riso, patate e soia”.Sul fronte ambientale, dai dati raccolti da ProMED eHealthMap, agenzie internazionali specializzate nel monitorare la comparsa e diffusione di nuove patologie, i ricercatori hanno scoperto che oltre 500 specie di anfibi e alcune di api ,tartarughe marine, pipistrelli e coralli sono seriamente minacciate da funghi patogeni.Un evento in continua crescita : dal 1995 al 2010, le infezioni fungine sono cresciute dall’ 1 al 7 per cento. Ciò è un problema  per la biodiversità, ma anche per il riscaldamento globale. La moria o il danneggiamento di alberi causati dai funghi si traducono in circa 230-580 mega tonnellate di CO 2 che non vengono assorbite dalla vegetazione e contribuiscono ad arricchire la cappa atmosferica che ci sta surriscaldando.Il problema di fondo risale all’attività dell’uomo con i suoi viaggi (per il commercio)  ha contribuito alla diffusione e proliferazione delle malattie fungine su scala mondiale a partire dalla metà del ventesimo secolo. Per questo,tuonano i ricercatori, la comunità internazionale deve impegnarsi ad aumentare i controlli alle frontiere sui prodotti di origine animale e vegetale (possibile veicolo di malattie) e a stanziare risorse per prevenire l’ulteriore diffusione di nuove infezioni.

 

Funghi Vs atmosfera: Anche i funghi producono metano

Un esperimento in condizioni controllate ha scoperto che alcune specie di funghi possono produrre metano. Questo risultato è importante non solo in ambito biologico ma anche in ambito climatico, visto che il metano è un gas serra molto più potente dell’anidride carbonica e che della rivoluzione industriale i suoi livelli in atmosfera sono triplicati, rendendo necessaria una conoscenza più approfondita su tutte le fonti possibili (red).Anche i funghi producono metano: è questa la sorprendente conclusione di uno studio pubblicato su “Nature communications” da Frank Keppler e colleghi del Max-Planck Institut per la chimica, a Mainz, destinata a rivoluzionare non solo le conoscenze di chimica e di biologia, ma anche gli studi sul clima.Il metano è un potente gas serra, 25 volte più efficace dell’anidride carbonica, e dalla rivoluzione industriale la sua concentrazione in atmosfera è triplicata: in poco più di 150 anni, i valori di concentrazione nella troposfera sono passati da 715 parti per miliardo in volume (ppbv) a 1800 ppbv. Le fonti di questo gas dovrebbero essere quindi tenute sotto stretto controllo. Attualmente, le stime parlano di una media di 500-600 teragrammi di metano immessi in atmosfera ogni anno, anche se rimane sconosciuta l’entità delle variazioni da un anno con l’altro.Funghi della classe dei basidiomiceti: questi organismi sono in grado di produrre metano con meccanismi per ora sconosciuti (Reg McKenna/Flickr/Creative Commons)Ma quali sono i meccanismi di formazione di questo gas? In passato si riteneva che il metano potesse formarsi solo per decomposizione di materiale organico in carenza di ossigeno. Questa convinzione è stata poi confutata dallo stesso gruppo di Keppler, che nel 2006 ha dimostrato come in realtà anche alcune specie di piante possano produrre metano in un ambiente ricco di ossigeno. Da allora l’interesse dello scienziato tedesco si è concentrato sulla ricerca di altre fonti nascoste e finora sconosciute.In quest’ultimo studio, gli scienziati hanno esaminato otto differenti specie di funghi appartenenti alla classe dei basidiomiceti. In questo modo hanno osservato il rilascio di metano usando un substrato di coltura marcato con isotopi: il glucosio nel terreno conteneva infatti una certa percentuale di C-13, un isotopo del carbonio che è stato poi rilevato nel metano rilasciato, al posto del C-14.Tutto questo ha consentito di stabilire che il metano era effettivamente prodotto dai funghi, dal momento che è stato possibile escludere il coinvolgimento nel processo di archea, microrganismi di cui è nota la capacità di produrre questo gas serra. Inoltre si è verificato che effettivamente il processo dipende dalle sostanze nel mezzo di coltura.

“Secondo i nostri studi precedenti, la quantità di metano liberato dai funghi dovrebbe essere piuttosto bassa rispetto a quello liberato da altre fonti. Quindi il loro contributo al riscaldamento globale dovrebbe essere trascurabile”, ha commentato Keppler.

Invece si deve ancora stabilire il rapporto tra i funghi e i batteri con cui spesso si associano. Molti batteri infatti usano come fonte di energia proprio il metano, ossidandolo per trasformarlo in acqua e anidride carbonica.Il grosso punto interrogativo, sottolineano gli autori dello studio, riguarda infine i meccanismi biochimici che consentono ai funghi di produrre metano, un tema che dovrà essere affrontato in successive ricerche, probabilmente con un respiro più interdisciplinare.

 

Funghi pro:

1)Pioggia

In Amazzonia, l’acqua è l’elemento naturale che domina l’ecosistema della foresta pluviale: ogni anno precipitano dai 2 ai 4 metri di pioggia, rendendo questa chiazza verde sudamericana uno degli ambienti più umidi del pianeta.Le grandi quantità di precipitazioni atmosferiche, tuttavia, potrebbero non essere soltanto la conseguenza della latitudine geografica della foresta amazzonica: un team del Max Planck Institute for Chemistry ha infatti scoperto che alcune particelle emesse nell’atmosfera dai funghi della foresta contribuiscono in modo sostanziale alla formazione di nubi e pioggia a bassa quota.”Per creare la pioggia, si ha bisogno di una superficie su cui l’acqua possa condensarsi. La biosfera di microrganismi e piante rilascia particelle che innescano la pioggia” spiega Christopher Pöhlker, a capo del team che ha effettuato la scoperta.Secondo Pöhlker, la cui ricerca è stata pubblicata di recente sulla rivista Science, il sistema amazzonico è influenzato da due meccanismi differenti: quello climatico, come già abbondantemente dimostrato, e quello biologico, che sembra in qualche modo modificare le condizioni atmosferiche naturali.Pöhlker ed il suo team hanno prelevato campioni di aria “pura” da una località sperduta nella foresta amazzonica, località che si suppone non sia mai stata raggiunta dall’essere umano. “Eravamo particolarmente interessati a capire come funzionavano le nubi ed il clima prima che l’uomo iniziasse ad inquinare” spiega Pöhlker.Ma anche l’aria più pura del pianeta contiene innumerevoli particelle in sospensione, di natura organica e non. Un ecosistema come la foresta amazzonica rilascia milioni di minuscole particelle, delle dimensioni di qualche molecola, ogni singolo giorno.Sono proprio queste particelle a formare uno strato costante di aerosol appena sopra le cime degli alberi, a circa 80 metri di quota. Queste minuscole particelle, inoltre, possono formare agglomerati di dimensioni maggiori, da 20 a 200 nanometri di diametro.Questi agglomerati contengono elevati livelli di sali di potassio, e sono circondate da un composto organico simile a gel. Una delle fonti più massicce di potassio sono i funghi, che usano acqua ad alto contenuto di potassio per lanciare in aria le loro spore; ma molte altre piante sono in grado di rilasciare nell’atmosfera questo elemento.”Ci sono ancora molte ricerche da fare per scoprire se i funghi sono realmente la fonte primaria, e capire il meccanismo e le quantità di sali di potassio emessi” afferma Pöhlker.Secondo una ricerca pubblicata nel 2011 da Markus Petters, docente della North Carolina State University e collaboratore di Pöschl, ben l’80% delle particelle più grandi di un micrometro in sospensione nell’atmosfera amazzonica sono di origine biologica. “Fondamentalmente, gli alberi ‘trasudano’ molecole organiche che reagiscono con dei composti nell’atmosfera, producendo minuscole particelle delle dimensioni tra i 20 e i 200 nanometri” spiega Petters.  “Queste particelle inseminano le nuvole. Inoltre, altre particelle biologiche formano i nuclei di ghiaccio per le nuvole”.”La foresta pluviale Brasiliana durante la stagione delle piogge può essere descritta come un bioreattore” spiegò Pöschl circa un anno fa, “il numero di gocce che cadono dalle nuvole sulla foresta pluviale Amazzonica è limitata dall’aerosol, cioè dipende dal numero di particelle di aerosol che sono rilasciate dall’ecosistema.”

 

Amazon Fungi Help Create Clouds & Rain

Funghi pro:

2) disinquinamento radioattività

Un fungo porcino, il ‘baio’ sarebbe un vero ‘divoratore’ di radioattività da cesio 137

Autore: newton.corriere.it

venerdì 9 novembre 2012 – letto [ 3757 ]

funghi porcini

La scoperta, fatta nell’ambito delle ricerche del dopo Cernobyl, ha evidenziato la predilezione di questo fungo per il cesio 137. Un rischio per l’alimentazione, ma una speranza per la decontaminazione dei terreni.Uno dei funghi più diffusi soprattutto in Francia, il ‘porcino baio’ (quello col cappello rosso, come nelle illustrazioni delle favole), conterrebbe un pigmento che ‘si nutre’ di cesio 137, prodotto radioattivo che finisce sul terreno soltanto dopo un incidente come quello di Cernobyl nel 1986.Se la notizia non farà piacere agli amanti dei funghi, la scoperta di alcuni scienziati francesi servirà per ‘decontaminare’ i terreni radioattivi.Dopo l’esplosione di Cernobyl, con la nube che passò su mezza Europa, Francia compresa, i funghi furono fra i principali prodotti finiti nel mirino dei misuratori di radioattività. Erano infatti, fra tutti i vegetali, quelli che più trattenevano il cesio 137.Dopo 16 anni, la radioattività nei porcini bai resta stranamente elevata, anche se non a livelli rischiosi per l’uomo. Finora questa anomalia veniva spiegata con la grande capacità dei funghi di catturare, nel suolo, il cesio che si trova nelle materie organiche di cui si nutrono.Ora, per la prima volta, un gruppo di chimici dell’università ‘Louis-Pasteur’ di Strasburgo, guidati dalla ricercatrice Anne-Marie Albrecht-Gary, ha identificato una molecola direttamente coinvolta nel processo di fissazione del cesio 137, il normadione A. Si tratta della stessa molecola che produce la colorazione tipica al cappello del fungo e che sarebbe una straordinaria divoratrice di cesio 137 che trova non solo nel terreno ma nell’atmosfera.

La scoperta, negli auspici degli scienziati, potrà essere direttamente utilizzata nella preparazione di nuovi metodi di decontaminazione dei terreni inquinati dalla radioattività.

 

Funghi pro:

3) disinquinamento acque

 

La notizia arriva dall’Università Americana di Harward; il fungo della Stilbella aciculosa sarebbe in grado di contrastare i pregiudizievoli effetti dell’inquinamento delle acque; gli scienziati sperano che questa scoperta possa contribuire alla tutela del patrimonio ambientale mondiale.Ecco una notizia che farà sorridere gli ambientalisti di tutto il mondo; nonostante, l’uomo si mostri sempre più spesso disinteressato alla tutela dell’ambiente, contribuendo, fra l’altro, alla disfatta ambientale del pianeta, fortunatamente, in natura c’è chi, al contrario, silenziosamente si impegna ininterrottamente al fine di ridurre l’inquinamento delle acque terrestri.Uno studio condotto presso l’Harvard School of Engineering and Applied Sciences ha dimostrato che un fungo ascomicete presente nelleacque inquinate, durante le fasi della sua riproduzione asessuata, produce determinati sali minerali che aiutano a ripulire l’ambiente dagli agenti metalli tossici.Gli esperti di Harvard hanno scoperto che il comune fungo Stilbella aciculosa, durante la differenziazione cellulare, in particolare durante la formazione delle strutture riproduttive asessuate, produce quell’ingrediente necessario, il superossido, un sottoprodotto della crescita fungina che viene creato quando l’organismo produce le spore, che aiuta il processo di depurificazione delle acque.Lo studio pubblicato  sulla rivista dell’Accademia di Scienza Americana e condotto dalla prestigiosa Università a stelle e strisce ha rivelato che il superossido, una volta rilasciato nell’ambiente, reagisce con il manganese, producendo un minerale altamente reattivo in grado di eliminare i metalli tossici, di degradare substrati di carbonio e di controllare la biodisponibilità dei nutrienti.Il manganese è un elemento versatile, presente nella crosta terrestre che gioca un ruolo importante nella “cattura” del carbonio, nella fotosintesi e nel trasporto e di sostanze nutrienti e contaminanti. Sotto forma di ione, dà luogo ad un minerale reattivo che è estremamente utile al fine di ripulire le acque da sostanze pericolose come arsenico, cadmio e cobalto.Lo studio è stato guidato da Colleen Hansel, il quale ha scoperto che questi funghi sono delle vere e proprie spugne naturali che ripuliscono le acque.Secondo gli esperti, la bonifica delle miniere di carbone potrebbe essere agevolata dai batteri e dai funghi attraverso il processo di ossidazione del manganese.

Hansel avrebbe dichiarato che: “è stato un enigma nel campo della biogeochimica dei metalli”. Infatti, per decenni nessuno è stato in grado di capire perché, o come, alcuni gruppi di batteri e di funghi ossidassero il manganese, visto che non lo facevano al fine di ottenere energia.

Lo stesso Hansel ritiene che questa scoperta, nonostante possa apparire una reazione laterale accidentale, potrebbe, invero, fornire benefici indiretti per l’organismo del fungo, data l’elevata reattività degli ossidi del manganese, e, di converso, contribuire sensibilmente alla pulizia delle acque dagli elementi inquinanti.

 

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Il 7 maggio scorso in Francia è entrato in vigore un decreto che riconosce il Parkinson come malattia professionale e stabilisce esplicitamente un nesso di causalità tra questa patologia e l’utilizzo di pesticidi. L’associazione italiana per l’agricoltura biologica (AIAB) ha così commentato la notizia: “Il riconoscimento ufficiale rappresenta una vittoria per questa mobilitazione e acquisisce un carattere importante sia a livello simbolico che concreto aprendo la possibilità a sostegni finanziari per l’incapacità di continuare a lavorare. Un percorso cui dar seguito in Italia – si legge nel sito AIAB – aggredendo radicalmente le problematiche legate a produzione, uso e residui dell’agrochimica. Un esempio da seguire, dunque e una strada, quella dei pesticidi, da abbandonare.”

Sull’argomento si è dibattuto lo scorso 25 maggio nel convegno“Parkinson – Agricoltura e Ambiente dalla parte dei soggetti a rischio”, tenutosi a Noicàttaro (Bari). “Nel nostro paese – si legge nel report di Noicàttaro sviluppo – è stato dimostrato il rapporto di causalità tra l’esposizione ad alcune sostanze utilizzate in agricoltura e la comparsa di sintomi quali abbassamento del numero di globuli bianchi nel sangue, dermatite allergica da contatto, tremori o vere e proprie malattie come il Parkinson e il linfoma non Hodgkin.” “Chi ha contratto una di queste malattie – spiegano gli esperti – deve dimostrare di essere stato esposto a queste sostanze e specificare la durata dell’esposizione. E’ possibile tuttavia avviare procedimenti privati per ottenere un riconoscimento per malattie non comprese nella tabella dell’INAIL, ma l’onere della dimostrazione spetta al paziente.”

Il morbo di Parkinson è la malattia neurologica degenerativa più diffusa dopo l’Alzheimer, in Italia ogni anno si contano 6 mila nuovi casi.

 

fonte Le Monde.fr

 

 

 

 

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